Le “8R” del paesaggio – Parte terza

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In un recente articolo apparso su La Stampa, Vittorio Sabadin scrive: “tutte le grandi civiltà del passato credevano di durare in eterno, ed hanno invece subito prima o poi un collasso che le ha distrutte”. L’articolo fa riferimento ad uno studio finanziato dalla Nasa, basato su modelli matematici creati da ricercatori di una nuova disciplina chiamata “Handy” (Human and Nature Dynamics), che dimostrerebbe come il nostro mondo, così come lo conosciamo, sia ormai vicino la crollo.

I fattori che nel passato hanno determinato la caduta delle grandi civiltà in ogni continente (dall’impero romano, ai Maya, fino alle dinastie Han in Cina) secondo gli studiosi sono sostanzialmente cinque: popolazione, clima, acqua, agricoltura, energia. “Fino a che stanno in equilibrio, la civiltà prospera. Quando l’equilibrio si spezza senza essere rapidamente ripristinato, comincia il decadimento. Il collasso avviene se si verificano due condizioni sociali precise, purtroppo già fortemente presenti nella nostra civiltà: l’impoverimento delle risorse disponibili e la stratificazione della società tra un gruppo formato dalle élite e un altro dalla massa di gente comune” (Vittorio Sabadin, Civiltà al collasso. Così fan tutte, La Stampa, 20 marzo 2014).

NASA-funded study: industrial civilisation headed for 'irreversible collapse'?

NASA-funded study: industrial civilisation headed for ‘irreversible collapse’?

Non c’è da stare allegri, ma certo non si può dire che la cosa rappresenti una grande sorpresa per nessuno: come non vedere nei cambiamenti climatici, nel picco del petrolio, nell’emergenza idrica, nella crescita demografica, nel consumo delle risorse, nell’esasperazione sociale, segni sufficienti a destare più di una preoccupazione?

Eppure c’è ancora chi preferisce nascondersi dietro l’emergenza della crisi economica per evitare di vedere, di capire. E’ il caso della recente presa di posizione degli ordini professionali (Agronomi, Architetti, Geometri, Ingegneri, Periti agrari, e Periti industriali), contro il nuovo Disegno di Legge della Regione Toscana sul governo del territorio (Pdl n.282/2013 “Norme per il governo del territorio”)

Sicuramente si tratta di una legge non perfetta (evidenti i punti deboli rappresentati dalla “linea rossa” che dovrebbe separare città e campagna, in palese contraddizione, tra l’altro, con la CEP, e dal rischio di una devastante saturazione delle aree urbane periferiche) ma che certo ha il merito di segnare una decisa inversione di tendenza: la fine dell’indiscriminato consumo di suolo nel territorio toscano e la promozione degli interventi di rigenerazione urbana.

Chissà quanti dei circa 40.000 professionisti saranno d’accordo con le posizioni espresse dai propri Ordini o Collegi: forse molti, certo non tutti. Sarebbe interessante conoscere il grado di rappresentanza effettiva (al di là della percentuale de voti con i quali sono stati eletti), ma non è dato sapere quale sia stato il criterio con cui si è scelto di prendere, a nome di tutti, una posizione critica riguardo ad un tema così importante.

Il territorio delle idee, convegno organizzato dagli Ordini professionali su la riforma della legge Urbanistica Regionale Toscana

Il territorio delle idee, convegno organizzato dagli Ordini professionali su la riforma della legge Urbanistica Regionale Toscana

Sconcertante è in ogni caso vedere quanti colleghi si siano dimenticati di essere persone prima che professionisti. Facendo finta di ignorare che la crisi non sarà meno dura quando avremo svenduto il nostro territorio, cementificato le nostre campagne, sperperato le nostre risorse.

Si legge nel Nuovo Codice Deontologico degli Architetti, entrato in vigore il 1° gennaio 2014:  “la professione di Architetto, Pianificatore, Paesaggista, Conservatore, Architetto Iunior e Pianificatore Iunior è espressione di cultura e tecnica che impone doveri nei confronti della Società (…) Con la sua attività, il Professionista nel comprendere e tradurre le esigenze degli individui, dei gruppi sociali e delle autorità in materia di assetto dello spazio, concorre alla realizzazione e tutela dei valori e degli interessi generali”.

Una visione sociale della professione che stenta decisamente a farsi strada, la cui mancata concretizzazione ha portato ad una perdita di credibilità della categoria, sempre più prona verso gli interessi privati, sempre meno sensibile e responsabile verso l’interesse generale e i beni comuni.

Limitare il consumo di suolo non rappresenta allora solo una modalità virtuosa di governo del territorio, ma è anche l’occasione per iniziare a immaginare un modo nuovo di svolgere la professione, dove al centro non ci sia solo la realizzazione dell’io e dei propri interessi (dalle archistar fino ai professionisti comuni), ma la consapevolezza di avere a che fare con una risorsa naturale d’interesse pubblico, limitata ed insostituibile.

Le ultime due delle “8R” di Latouche, Riutilizzare e Riciclare, declinate in termini di paesaggi di decrescita, offrono in questo senso ampi spunti di riflessione, per professionisti, amministratori e cittadini comuni.

 7. Riutilizzare. Cittadini custodi

(Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”) Serge Latouche.

L’individualismo esasperato che caratterizza la nostra società, e ci coinvolge tutti, a molti e diversi livelli, ha ridotto in frantumi le relazioni interpersonali, stravolgendo le strutture sociali, i legami di appartenenza, i riferimenti identitari.

Ma come sostiene Zygmunt Bauman, “tutto questo inseguire la realizzazione dell’io ci ha alienati ma anche responsabilizzati. E da questa nuova consapevolezza della responsabilità individuale, che pian piano stiamo introiettando, potrà nascere una nuova morale, adatta ai nostri tempi(…). Una comunità che insegue il culto dell’io è decadente, ma è anche capace di valorizzare una consapevolezza nuova, e di notevole portata etica. Se io sono il fine, sono anche il mezzo, lo strumento del cambiamento”. (Bauman Z.  Ho fatto un sogno. Vivere nel socialismo dell’armonia, in  “D Repubblica”, 2 settembre 2006).

Un grande cambiamento sta infatti nascendo in questi ultimi anni grazie a gruppi di individui che si mettono in rete per fare fronte all’incapacità di amministratori, all’inaffidabilità di architetti e urbanisti, alla strutturale mancanza di fondi, per riutilizzare, mantenere e gestire luoghi pubblici urbani.

Si tratta di cittadini custodi che oltre ad essere “portatori di interessi”, o di bisogni, lo sono anche di capacità e di competenze, che sono messe a disposizione di tutti interpretando la città come bene comune e provando a prendersi cura dei propri luoghi di vita, riparando, riutilizzando, rigenerando spazi comuni.

Al di là di qualche piccola eccezione, le amministrazioni comunali hanno fino ad oggi guardato con sufficienza, se non con qualche sospetto, a queste forme di volontariato urbano, rendendo spesso difficile, se non impossibile, qualsiasi forma spontanea di recupero, gestione e manutenzione di luoghi pubblici, senza diventare immediatamente dei “fuori legge”.

Da febbraio di quest’anno, però, non sarà più così, almeno nel Comune di Bologna. Con l’approvazione del Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, diventa concreta l’idea di una amministrazione condivisa per la cura dei beni comuni urbani, dando finalmente attuazione al principio di sussidiarietà orizzontale sostenuto dall’ articolo 118 della Costituzione.

Si tratta di un documento fatto di regole che non vietano, ma promuovono, non complicano, ma semplificano, dove formale e informale, legale e legittimo trovano uguale spazio. Un patto tra cittadini e amministratori di “fiducia reciproca”, di collaborazione e di sostegno nel “perseguimento di finalità di interesse generale”.

“Immaginiamo una città come un’automobile, perfetta” ha detto Gregorio Arena, presidente di Labsus-Laboratorio per la sussidiarietà, che ha curato la direzione scientifica del Regolamento, “i cittadini sono il motore. Un motore che però gira a vuoto perché manca l’albero di trasmissione. Noi l’abbiamo costruito” (Il Resto del Carlino, 21 febbraio 2014).

Gli interventi consentiti e promossi vanno dalla cura occasionale” alla cura costante” alla gestione condivisa” fino alla “rigenerazione” e riguardano arredi, spazi pubblici o ad uso pubblico, edifici in stato di parziale o totale disuso o deperimento (anche di proprietà di terzi previo consenso) e beni confiscati alla criminalità organizzata.

La città bene comune: + aggiungo bellezza: - riduco il degrado, x moltiplico le energie, ÷ con-divido (fonte: http://www.cittabenicomuni.it/bologna/)

La città bene comune: + aggiungo bellezza: – riduco il degrado, x moltiplico le energie, ÷ con-divido (fonte: http://www.cittabenicomuni.it/bologna/)

Il regolamento, infine, è stato pensato come uno strumento open source che chiunque può scaricare e adattare alle proprie esigenze e condividere nuovamente con gli altri, nella speranza che contagi il maggior numero di cittadini e di amministratori “attivi” e permetta di recuperare e rigenerare il maggior numero di luoghi comuni. (http://www.comune.bologna.it/sites/default/files/documenti/REGOLAMENTO%20BENI%20COMUNI.pdf)

Parafrasando il famoso motto di Ernesto Nathan Rogers si potrebbe allora definire “dalla panchina alla città”, l’incondizionato impegno civile dei cittadini attivi nel prestare la stessa attenzione alla cura e alla rigenerazione dei beni comuni a tutte le scale.

 

8. Riciclare. Paesaggi senza scarto

(Recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività) Serge Latouche.

Il tema dello “scarto” ha appassionato negli ultimi anni in egual misura il mondo degli studiosi della città e del paesaggio: dai “drosscape” di Alain Berger, ai “junkspace” di Rem Khoolas, , ai “non luoghi”  di Marc Augè, fino al “terzo paesaggio” di Gilles Clement.

Drosscape (foto: Alex MacLean)

Drosscape (foto: Alex MacLean)

A ben guardare però il concetto di scarto appartiene più all’urbanistica, che al paesaggio: funzioni dismesse, luoghi residuali, spazi interclusi, territori della provvisorietà, dell’abbandono, quando non addirittura della segregazione, sono infatti il segno evidente del fallimento disciplinare e culturale delle teorie urbanistiche funzionaliste. Gli scarti (depositi dismessi, cave chiuse, distese di parcheggi, terreni in abbandono o in attesa ecc…) sono necessari alla vita della città, così come i rifiuti sono indispensabili alla nostra economia di mercato.

Se guardiamo al paesaggio, invece, come ad un sistema di ecosistemi, che convivono, si evolvono e si integrano, non esiste il concetto di rifiuto, perché lo scarto di un sistema diviene materia prima, occasione, opportunità per un altro sistema.

Un concetto evidenziato chiaramente da Gilles Clement, che ha nobilitato il “terzo paesaggio” individuando nei “residui” e nelle “riserve” (urbanisticamente privi di funzione), zone fondamentali per il rifugio della biodiversità, che trovano il loro valore fondamentale proprio nell’essere improduttivi.  Questi spazi, liberati dall’abbandono di una attività, se urbanisticamente costituiscono un problema, dal punto di vista paesaggistico rappresentano una opportunità di evoluzione verso forme progressive di rinaturalizzazione.

Il paesaggio, anche in questo caso, ci insegna uno sguardo differente: ci induce a valorizzare l’integrazione invece della segregazione, il sistema invece dell’insieme e della giustapposizione, l’accoglienza invece del rifiuto.

Un cambiamento di prospettiva importante, assimilabile all’approccio teorizzato dall’architetto William McDonough e dal chimico Michael Braungart nel saggio “Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things” tradotto in italiano nel 2003 col titolo “Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo”.

I due autori promuovono infatti il passaggio dall’usuale sistema lineare “dalla culla alla tomba” ad un più conveniente sistema ciclico “dalla culla alla culla”(C2C), eliminando così dall’orizzonte di ogni processo produttivo e progettuale, il concetto di “rifiuto”. Gli “scarti” non vengono più avviati in discarica o verso l’inceneritore, ma, come succede nei processi biologici, si rigenerano e divengono materiali utili ad essere impiegati in nuovi cicli produttivi.

Una citta ad emissioni zero, che non utilizza il petrolio (Madsar City), un edificio progettato come un albero (Oberlin College) capace di produrre ossigeno, assorbire CO2, depurare l’acqua; un materiale isolante per l’edilizia (Greensulate) composto da fibre di funghi, scarti di riso e carta riciclata, sono solo alcuni dei progetti realizzati da McDonough.

House like a tree (William McDonough & Partners)

House like a tree (William McDonough & Partners)

Venlo in Olanda è stata invece la prima città che ha tentato di applicare integralmente il concetto C2C ad un contesto urbano: dalle industrie, ai politici, al settore pubblico, ai designer, tutti si sono attivati per creare un grande cantiere sperimentale comunitario. L’esperimento è ancora in corso, ma molti aspetti restano difficili da realizzare pienamente. Il valore più importante dell’esperienza risiede però non tanto nella fattibilità immediata delle singole proposte, quanto nella volontà di scardinare il modello corrente, lavorando sul cambiamento, puntando l’attenzione sulla produzione di servizi invece che di merci, su un design “sistemico” che non produce scarti, perché punta a “sovraciclare” i beni, riutilizzandoli o restituendo alla natura le materie prime per produrre altri beni, invece che “riciclarli”,  processo che spesso nel tempo diminuisce il valore dei componenti, fino a trasformarli in “rifiuti”.

Più semplice, infine, ma non troppo lontana come ispirazione dal ciclo C2C, è l’esperienza tutta italiana dell’”Albergo diffuso”, originale modello di ospitalità turistica nato per incoraggiare il recupero di antichi borghi e agglomerati rurali, per ridare loro nuova vita attraverso la creazione di un “paese albergo” gestito dalla comunità locale, capace di offrire una esperienza autentica, una ospitalità destagionalizzata, fuori dalle destinazioni più abusate .

Nulla viene costruito ex-novo, ma gli antichi borghi vengono trasformati in “imprese ospitali” orizzontali, e le vecchie case disabitate, scarti di una società industriale che ha svuotato progressivamente le campagne ponendole ai margini dello sviluppo, vengono riciclate (per poter accogliere camere, spazi comuni, punto ristoro, accoglienza e soprattutto i servizi alberghieri professionali) o meglio “sovraciclate”, in quanto oggetto di azioni di ristrutturazione che le reimmettono in un nuovo ciclo produttivo, aumentandone  qualità e valore.

Un “sovraciclaggio” che in molti casi è uscito fuori dai confini dei borghi, per estendersi al paesaggio circostante, portando, come nel caso dell’Albergo Diffuso di S.Stefano di Sessanio “alla radicale modifica dei documenti urbanistici locali, dai quali sono state cancellate le previsioni di espansione urbana a favore di una politica della conservazione degli spazi agricoli” (Grazia Brunetta, Stefano Moroni,  La città intraprendente, Roma 2011).

Scrive ancora Sabadin nel suo articolo Civiltà al collasso: “Di fronte a questi eventi le caste hanno sempre reagito continuando a fare “business as usual, ignorando gli allarmi e procedendo verso la fine senza agire in modo adeguato”.

Qualcosa però sta cambiando: gli strati sociali più deboli si stanno attivando, costruendo un capitale umano capace di far fronte alla crisi, alla mancanza di risorse, all’inefficienza degli amministratori, all’inadeguatezza di tecnici.

E’ in atto una rivoluzione, strategica e semantica, che porta i margini al centro, trasforma gli scarti in risorse, promuove l’accoglienza invece del rifiuto, estende la cura “dalla panchina alla città”, immagina paesaggi di decrescita, dove provare finalmente a “sostituire l’atteggiamento del predatore con quello del giardiniere” ( Serge Latouche, Breve trattato sulla dcerscita serena, Torino 2009).

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